Paziente: Hiltler, Adolf.
Adolf Hitler è l’archetipo del paziente perfetto per qualsiasi studio di psicologia: manie di grnandezza + ego smisurato + personalità paranoica = pura follia. In Mein Führer, il regista Dani Levy ci racconta con sguardo buffonesco la terapia del cancelliere di pongo.
La vita dello psicologo non è facile. Tutto il giorno ad ascoltare i problemi altrui, a interpretare sogni di poveri schizzati e a calmare futili ansie represse. C’è da uscirne matti. Immaginate allora di avere come paziente il più perfido omicida di massa che la storia ricordi, colui che rappresenta il male assoluto, l’uomo che più di ogni altro ha portato morte e disperazione al genere umano. Che però unisce a lle sue visione totalitarie anche dei forti problemi intestinali e una risibile impotenza. Un paziente che alterna attacchi di panico e di ira furibonda a momenti di manseutudine fanciullesca. Immaginate di avere come paziente Adolf Hitler… in preda ad un calo di autostima: ecco, i guai per voi sono solo iniziati. Il plot di Mein Führer: The Truly Truest Truth About Adolf Hitler (che potremmo tradurre “la davvero vera verità circa Adolf Hitler”), il nuovo film del regista Dani Levy, sta tutto qui.
Il film è ambientato nel 1944, ovvero in un periodo nero per le ancora più oscure menti naziste: la sconfitta avanzava inesorabile sotto forma di soldati americani sbarcati pochi mesi prima sulla spiaggia di Omaha Beach e sempre più vicini ai congini tedeschi. Logico che il diabolico dittatore si preoccupasse per il suo futuro, tutti i sogni mistici di creare quel millenario Terzo Reich ariano popolato da algidi soldati biondi ed espanderlo a tutto il globo si stava lentamente dissolvendo. Non basta acoltare a ripetizione Wagner a far sparire la preoccupazione! Non altrettanto logico essere passivi testimoni dei comportamenti bizzarri del führer. Può il salvatore del popolo tedesco giocare con dei modellini di incrociatori nella vasca da bagno? Può l’uomo più grande del mondo parlare con il suo cane e vestirlo con l’unifome nazista? Queste sono le domande che si fa nel film uno dei sudici accoliti di Hitler, il Ministro della Propaganda Joseph Goebbels. E un perentorio “nein” è la risposta che si dà. Per correre ai ripari, il barcollante braccio destro del cancelliere affida ad uno psichiatra il compito di riaccendere nel führer il sacro fuoco patriottico, di ravvivare in lui lo spirito del grande condottiero. Il compito dello psicologo Adolf Grumbaum, assunto per curare le manie di Hitler, non sarà facile. Il pittore fallito diventato Signore della Germania sarà il paziente più comicamente tragico della sua carriera. Quello che si trova di fronte è un Hitler regredito ad una forma di bambino capriccioso e prepotente, che vuole conquistare il mondo per prendersi la sua rivincita con il padre che non aveva mai creduto in lui. Il training fisico e mentale a cui il dottore costringerà il cancelliere innescherà un caleidoscopio di situazioni assurde, comiche e banali al tempo stesso, dove un uomo che dovrebbe incutere il terrore si ritrova impelagato in gag ai limiti dello slap-stick: durante una seduta di ginnastica (mens sana in corpore sano) l’Adolf dottore sferrerà un pugno sul naso dell’Adolf paziente. In un’altra scena un barbiere incauto si distrae e rade di netto metà dei celebri baffetti di Hitler a pochi minuti da un importante discorso di fronte una folla inneggiante. Anche tra le quattro mura della camera da letto le cose non vanno meglio per il dittatore dalla pettinatura buffonesca: non riesce a soddisfare la sua compagna Eva Braun, che ammette sconsolata: “Non riesco a sentirla, Mein Führer!”. Questi i presupposti per un film che nei mesi successivi alla sua uscita, lo scorso gennaio, ha destato scalpori, discussioni infinite, provocazioni e sommosse intellettuali. Ed è giusto così. Ci sono molti motivi per cui Mein Führer è un film importante, nonostante tutte le critiche che gli sono state mosse dall’intelligentsia tedesca e internazionale. Il regista Dani Levy, che già nel cognome porta la storia del suo popolo, è un regista che viene dal mondo del circo. È stato acrobata e pagliaccio, e la sua filmografia unisce esattamente questi aspetti, per primo l’essere ebreo, e come solo il popolo ebreo può fare, saper scherzare con ironia leggera e a volte disperante delle manie del suo credo. E, in secondo luogo, destreggiarsi come un acrobata in una cosatante situazione di pericolo, rischiando anche lo scivolone, ma concludendo tutto con una sonora risata. Nel suo film precedente, Zucker! – Come diventare ebreo in 7 giorni, Levy si faceva beffe di tutti i dettami e dogmi che la religione ebraica propone, che possono sembrare assurdi per chi non li segue (ma non è così per ogni religione?), e lo faceva come un esperto funanbolo cammina su un filo sospeso, in maniera leggera e divertente. Il pericolo si fa più vicino con Mein Führer. Un film uscito, non scordiamoci, in Germania, dove inevitabilmente la storia del suo popolo è una fitta trama di nervi scoperti che possono facilmente essere tirati, provocando dolore e irritazione. Lo stesso Levy usa le parole giuste per convincerci della sua scelta coraggiosa: “Considero questo film una terapia, una cura sotto forma di provocazione. Come la terapia a cui è costretto il führer nella pellicola, anche il popolo tedesco deve uscire dal tunnel di commiserazione, dimenticanza e paura della sua storia in cui si ritrova. Le nuove generazioni sono pronte a ridere di una figura che dietro una facciata potente e grandiosa era in realtà patetica e ridicola. Con il mio film vorrei distruggere un tabù. Ridicolizzare Hitler per me significa abbassarlo alla figura di uomo, ridimensionando così la sua figura mitica, che rischia di manternere il suo potere e la sua fascinazione, e nessuno la distrugge. Non attaccarla significherebbe accettare la sua potenza e rimanerne vittime di nuovo”.
La storia ci insegna che i figli non devono pagare le colpe dei propri padri, ma parlare di nazismo, in Germania, è come camminare in un campo minato, per l’appunto. Gli occhieti da squalo di Hilter sembrano ancora spuntare ogni tanto da dietro qualche angolo buio, magari posandosi su quei giovani disperati che vedono nel neonazismo una soluzione da branco dei propri prblemi di periferia. Fare un film smaccatamente comico su Hitler è stato un’operazione rischiosissima da parte di Levy. La critica ha sgranocchiato il film come un doberman divora una bistecca; distruggendone le soluzioni comiche, accusando il regista di fare apologia della figura del führer, di renderlo una macchietta e quindi di edulcorarne l’atrocità del pensiero antisemita e totalitario. In molti hanno gridato allo scandalo, accusando il film non solo di essere inutile, ma pericoloso proprio per il fatto di far ridere di un personaggio così legato alla cultura del male. La domanda da porsi è: si può rendere Adolf Hitler una figura pop? Dare di Hitler l’immagine di un uomo paranoico e patetico succube dei suoi scatti di ira e dei medicinali contro l’aerofagia può nasconderre alle nuove generazioni la realtà, quello che il nazismo ha rappresentato: un atroce e facile appiglio per un popolo disperato (alla fine della Prima Guerra Mondiale, dopo il trattato di Versailles del 1919 che negava ogni diritto ad una Germania in piena recessione economica, la povertà toccava picchi mai raggiunti e un tozzo di pane poteva costare anche milioni di marchi.), che con grandiose promesse faceva leva sulla paura, sulla violenza, sull’antisemitismo e sulla morte. L’attore che interpreta Hitler in Mein Führer, Helge Scnehider, recita con illuminato sguardo antropologico: “Il bene e il male hanno la stessa casa. E quella casa è l’uomo”. Non ci resta che aspettare l’uscita italiana di Mein Führer, per vedere quell’immondo “povero diavolo” (poco povero e molto diavolo) di Hitler combattere contro i propri fantasmi, cercando di non dimenticare mai una tragedia che alcuni confinano e attribuiscono ad un solo popolo, quello ebraico, ma che in realtà ha allargato i suoi tentacoli di morte a tutto il genere umano. Sarebbe proprio questo l’errore in cui alcuna politica neo-nazionalsocialista, neanche troppo lontana, piacerebbe vederci cadere. Il labile confine tra indifferenza e razzismo si supera con un passo, un passo che in alcuni periodi storici è diventato una marcia fatta con stivali tirati a lucido. Film come Mein Führer servono al di là del loro valore critico. Mein Führer potrà essere un buon film o un cattivo film, un’ operazione commerciale o un colpo di genio, ma ha nello smuovere gli animi la suaforza maggiore. Nel far parlare ancora e ancora della pagina più oscura della storia umana, nel far ricordare a tutti che l’animo umano è labile, che gli basta esere aizzato con la bava alla bocca per far scatenare la più recondita violenza contro chi gli sta accanto. Ben vengano film come Mein Führer, perché il doloroso peso della memoria rappresenta l’unica speranza di non ripetere i propri errori. Banale forse? Semplicemente vero.
---poi c'era il box---(il titolo lo cambiarono, con La svastica alla berlina... carino, non mi incazzai)
HEIL, (DA CANCELLARE CON "HA HA HA") MEIN FÜHRER
Il grande dittatore (1940 – di Charlie Chaplin)
Chaplin era un genio, e fin qui… Ma parliamoci chiaro, non è Chaplin ad aver assunto l’identità di Hitler, ma il contrario! Charlot aveva i suoi baffetti già da molti anni prima che il fürher salisse alla ribalta dei suoi comizi pazzoidi… è come se ora un novello dittatore salisse sul palco con il ciuffo alla Arturo Brachetti! Poi non lamentarti se ti fanno le parodie! Il film di Chaplin ha il valore unico di essersi preso gioco della follia nazista quando questa era al potere, non temendo rappresaglie e con un valore profetico sconvolgente.
La vita è bella (1997 – di Roberto Benigni)
L’olocausto, un clown e un film bellissimo. Tralasciando l’amore un po’ esagerato dimostrato dagli americani per il toscanaccio scatena-deliri, vedere Benigni fare il pinocchietto con una lüger puntata alla schiena è straziante. La sceneggiatura poetica di Vincenzo Cerami fa il resto.
Train de vie (1998 – Radu Mihaileanu)
Il metodo migliore per evitare la deportazione? Autodeportarsi, ma invece di un campo di concentramento avere come meta la Palestina, la Terra Promessa. Questo è quello che organizzano gli abitanti di un piccolo villaggio, allestendo un finto treno, con alcuni di loro travestiti da nazisti. La più bella e tragica commedia mai filmata sulla Soha.
The producers (1968 – di Mel Brooks)
Mel Brooks è un altro di quegli artisti di origine ebraica che ha saputo scherzare sulla più grande tragedia del suo popolo. In The producer racconta la creazione di un musical folle che parla della… messa in scena di un musical folle: "La primavera di Hitler”. Il remake del 2005 non regge, al solito, il confronto.
Il lago degli zombi (1981 – di Jean Rollin)
Con due spigolose “S” sui loro elmetti emergono dalle acque limacciose del laghetto: sono biondissimi, nazisti, e sono pure zombie! Questo geniale film weirdo vi farà sbellicare dalle risate (involontarie) e quando, persfuggire alle grinfie dei soldati mangiatori di carne umana e violentatori di donzelle, i protagonisti troveranno rifugio in alcuni forni tutto assumerà i toni davvero assurdi! Imperdibile!
Fascisti su marte (2006 – di Corrado Guzzanti)
Anche gli abitanti dell’ Italico Stivale hanno i propri peccatucci di gioventù. Corrado Guzzanti immagina un gruppo di gerarchi fascisti alle prese con Marte, il pianeta rosso bolscevico e traditor, e racconta con fulgido splendore le imprese per la intergalattica conquista.
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