lunedì 5 dicembre 2016

Fiore d'aria

Fiore
Trama:
«Mi hanno piantato dentro così tanti coltelli che quando mi regalano un fiore all’inizio non capisco neanche cos’è.»
Charles Bukowski 

«Sei un fiore che è cresciuto sull'asfalto e sul cemento.»
Serenata Rap, Jovanotti 

Questo è un fim a cui non puoi dare Broccolo, anche se forse, fosse stato americano o francese, glielo avresti dato. Patriottismo da due soldi? Anche.
La sensazione è quella di stare guardando un film con molto cuore ma non altrettanta efficacia. Perché l'andamento è quello di un film che racconta le emozioni, anche profonde, in maniera poco cinematografica. Si appoggia invece sui protagonisti, che si muovono sempre in ambienti brutti e angusti, che annaspano e soffocano, che cercano di tirarsi su, ma vallo a sollevare tu, con le spalle graciline, tutto il peso del mondo.
Quindi per fartelo piacere devi anche essere quel tipo di persona a cui piace tanto la messa in scena del reale che più reale non si può, senza spintarelle di colonne sonore che emozionano, primi piani estremi, virtuosismi di regia, sceneggiature verbose e profonde. Fiore racconta solo una vita, che è una merda, quindi beccatela così com'è, fine.
Ma certo, se pensi all'ultimo di Vicari, sbagliato da sentirsi male, che usava proprio quegli artifici per arrivare alla stessa conclusione (la vita è una merda), allora Fiore non può proprio essere messo alla stessa stregua, è per forza Chicken.
Dafne è un'adolescente sbandata che per sbarcare il lunario, taglierino alla mano, ruba i cellulari alle coetanee per rivenderli pe' du' spicci. Quando viene arrestata inizia la sua vita in carcere, tra litigi con altre ragazze più o meno "dure" di lei, scontri verbali e non con le secondine, e la rabbia che monta. Poi una svolta inaspettata: fa la conoscenza di un ragazzo, Josh (gli attori all'anagrafe si chiamano Daphne e Josciua, poi dici il neorealismo), un altro della stessa pasta, un altro per cui la criminalità è stata una necessità, più che una scelta, di cui si innamora. Scambi di lettere che inciampano nella retorica da terza elementare (infatti sono le cose migliori del film, è sempre difficile saper scrivere la semplicità patetica e sincera di chi non ha parole al suo arco), sguardi tra le finestre lontane dei due bracci (femminile e maschile), voglia di andare al mare e fare una vita normale, magari di merda, ma normale.
Il padre di Dafne (a cui il film addossa quasi tutta la colpa del perché Dafne sia nella situazione in cui è) è più che assente, tiene più alla nuova compagna che a lei, anche lui è un ex-carcerato che cerca di rimanere a galla, e la figlia è una zavorra.
Il quadro è disperante, ma mai assecondato, nel senso, non ci si piange addosso, anzi la forza comunicativa di Daphne Scoccia, al suo esordio, è predominante, fa tutto il film, è bravissima. Ci si chiede solo se non sia già destinata, nel caso continuasse a fare cinema, ad essere la "ragazza dura a cui la vita riserva solo uppercut ma lei rimane in piedi, nonostante il dolore e i lividi". Vedremo.
Intanto ci godiamo la scena finale in piena nouvelle vague, una corsa di amanti che scappano dal passato che li insegue pistola in pugno, in cerca di libertà verso un destino che in quel secondo, in quel preciso istante, sembra meno nero petrolio di quanto sia mai stato anche un solo secondo della vita precedente, quando non erano insieme.
Sembra quasi di vedere un casuale contraltare alla storia matterella della coppia Bruni Tedeschi/Ramazzotti di La pazza gioia, anche loro sono personaggi, donne, che condividono con Dafne la necessità di trovare qualcuno che le accetti "no matter what", necessità che viene scambiata per rabbia, rabbia che genera repulsione e allontanamento: nessuno ti vuole bene > ti arrabbi > nessuno ti vuole bene perché sei arrabbiata > ti arrabbi > repeat. Un circolo vizioso difficile da spezzare.
La partecipazione di Mastandrea, che come sempre appena compare si porta dietro un carico di bravura, naturalezza e malinconia (mestoandrea) capaci di dire tre e raccontare mille, è più che altro un aiuto al progetto-film (lui i film se li prende a cuore, lo sappiamo), più che una vera e proprio parte, fa tre scene, di cui due di poco più che 3 minuti, ma anche in quei 3 minuti è sempre la cosa migliore che può capitare a un film italiano, oggi.
Fiore non sarà riuscito al 100%, ma proprio perché non racconta il carcere e la vita di merda in maniera iper-autoriale (Il profeta) o "all'americana" (Orange Is the New Black), merita tutto l'appoggio possibile, non solo quello di Mastandrea.

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