martedì 13 dicembre 2016

Questazzam sozza società

Mechanic Resurrection

1966.
Cesare Marchetti ha diciannove anni ed è sempre stato un tipo coriaceo.
Abita in un paese di tanti abitanti quanti giorni conta un anno nel bel mezzo di qualcosa che si fa anche fatica a definire nulla, ma a volerlo proprio cercare su una cartina, quelle quattro case dovrebbero trovarsi da qualche parte nel Lazio.
A Cesare Marchetti lo chiamano tutti Fiasco, da quella volta che a dodici anni, all'hosteria del Sor Nando, il padre gli fece bere tutto un fiasco di rosso e lui, all'ultimo sorso dell'ultimo bicchiere, era ancora in piedi, spalle dritte, lucido e sobrio come avesse bevuto acqua da un nasone. Sempre stato un tipo coriaceo, Fiasco.
Non che abbia avuto quella che si può dire una vita facile. Da quella notte in cui prese il suo nome "d'arte" ne sono successe di cose, a Fiasco.
Anzi, a pensarci bene fu proprio quella notte a cambiare tutto.
Il padre non reggeva il vino come lui e quando, in piena notte, Fiasco dovette riaccompagnare il genitore a spalla verso casa, non si aspettava certo che il giorno dopo avrebbe letto il suo nome sul giornale, un trafiletto, che quattro case sperdute non meritano la prima pagina neanche quando ci scappa il morto. 
In Via Aldobrandieri, all'altezza del fruttarolo, una macchina nera investì il padre di Fiasco. Senza fermarsi, scaraventò il corpo lontano dalle braccia del figlio come l'avesse sollevato di peso, un secondo c'era, un secondo dopo era sul banco delle mele che il fruttarolo stava mettendo a piramide, pronto già per la mattina dopo, le più vecchie sopra, ovviamente. Una scena paradossale se ci pensi, un corpo morto circondato da mele vecchie, una pira funeraria con un spunto paradisiaco.
Ma più paradossale, stando al racconto di chi c'era (anche se da quella notte sembrava che ci fossero davvero tutti, perché davvero tutti raccontavano di esserci stati), fu la palombella incredibile che fece la mela lanciata da Fiasco verso la macchina in fuga: dalla sua mano dritta al posteriore dell'automobile killer, che sembrava già troppo lontana, ma non per la rabbia del giovane, in una precisione balistica degna di un cecchino. 
Coriaceo e con delle doti inaspettate, il Fiasco.
Il colpo sordo della mela che impattava sul cofano dell'automobile risuonò ancora e ancora nelle ore successive, coprì le sirene della polizia, le urla della Sora Lucia "M'hanno ammazzato er marito mio. Emmò come famo cor pupo (per le madri col cuore che sanguina, i figli sono pupi a ogni età). Mo' dovrà anna' a lavora'. Ma Cesare mio doveva studia'. Doveva andassene da sto posto dimenticato da Iddio". 
Le urla diventarono voci, poi domande, poi sussurri, infine solo tiepide speculazioni su chi fosse il maledetto alla guida di quella macchina che nessuno aveva mai visto prima, di cui nessuno aveva preso la targa, di cui nessuno aveva anche solo riconosciuto il modello, o l'anno, o la marca, o il rombo; una macchia nera che sembrava uscita proprio da un'officina infernale, montata pezzo per pezzo solo per distruggere la vita di Fiasco.
L'alba di una nuova vita prometteva tutto tranne della felicità, per lui.
Da quel giorno i banchi di scuola diventarono solo un ricordo per Cesare, che tempo una settimana era già apprendista meccanico all'officina della famiglia Giannini.
Gente strana, i Giannini. I più ricchi del paese, quasi troppo se fai i conti in tasca di una famiglia che ha una sola officina, e le macchine del paese non sono poi tante. Si dice che Nonno Giannini avesse fatto gli impicci durante la guerra aggiustando le autombili e le moto ai tedeschi, che avevano preso quel casale in collina dalla famiglia Funaro, sparita in blocco in una sola notta, e si sentivano i padroni del mondo.
Finita la guerra Nonno Giannini insisteva nel dire che in realtà le macchine gliele manometteva, ai crucchi, ma nessuno si ricorda che mai uno di quelli avesse fatto un solo incidente, anzi come correvano da una parte all'altra del paese con quelle divise e quelli sguardi vacui. Ma meglio farsi poche domande, che si vive più tranquilli.
La vita di Fiasco in officina non regala altro che mani nere e puzza di bruciato, ma è pur sempre una vita. 
Una vita che incredibilmente sembra voltare una pagina (unta di grasso quanto vuoi, ma pure sempre un nuovo capitolo) quando Fiasco conosce Caterina, la più piccola dei fratelli Giannini (la più piccola di loro, ma più grande di lui di cinque anni). È l'unica che non lavora in officina, ma che ogni giorno porta il pranzo ai maggiori.
Fiasco se ne sta lì, la guarda, mentre qualcosa, qualcosa di minuscolo, si fa strada nella sua coriacità, nei ricordi dolorosi, nel misero letto in cui dorme, nella tuta blu che ogni sabato la Sora Lucia gli lava a mano.
Si sa che le cose minuscole, col tempo, possono diventare ben più grandi, e quello che era uno sguardo, diventa un amore, ci mette più di quattro anni, ma lo diventa. Per entrambi. A furia di pranzi e di mani pulite sui pantaloni.
Che poi che ne sanno due ventenni dell'amore, ma chiamalo come vuoi, Fiasco e Caterina si stringono le mani fino ad farsi male quando di fronte a Nonno Giannini rivelano la loro intenzione di sposarsi.
Sembra una statua di marmo, Nonno Giannni, quando acconsente a questa unione, però lo fa, con immensa sorpresa dei fratelli maggiori e della madre di Caterina, figlia del vecchio Giannini, una donnina mesta che nessuno di cui nessuno ricorda la voce, vedova di guerra sin dalla nascita di Caterina. 
Strana quell'unione, strano il benestare del vecchio capofamiglia, forse di fronte allo sguardo deciso di Fiasco era tornato a essere quell'uomo più piccolo di quanti tutti credano, quello che non si è mai capito se coi tedeschi facesse affari oppure no?
Un matrimonio, in certi posti, diventa più un affare di stato, e la cerimonia più una festa di paese.
Il vestito di Fiasco stringe, ha le maniche troppo lunghe e l'orlo dei pantaloni troppo corto. Ma le lacrime di Sora Lucia che rivede il marito nel figlio valgono anche la ridicolaggine dello sposo.
La cerimonia è scarna, il prete balbetta, i Giannini sono torvi, ma tutto va come deve andare, soprattutto il calore che Fiasco sente al momento del Sì di Caterina, accompagnata all'altare dal nonno.
E poi la piazzetta si trasforma in ristorante, coi tavoli e le sedie prese dalle case lì intorno e ognuno con la sua ricetta segreta che tutti conoscono a fare la sua parte nel pranzo. 
Canti sguaiati, piatti riempiti tre volte e bicchieri svuotati a grandi sorsi, svuotati tanto velocemente che tutto il vino finisce. 
Tocca proprio a Cesare, forse l'unico sobrio e lucido come non avesse bevuto che acqua, andare a prendere nella riserva, quella tenuta al fresco dai Giannini, la sua nuova famiglia, nel retrobottega dell'officina.
Dove diavolo sta questa riserva poi, perché c'è dovuto andare lui poi, che cosa ci sarà sotto questo telo impolverato poi.
È una macchina. Nera. 
O  meglio, nero è il colore che sembra esserci sotto un groviglio di rami nodosi che ricopre tutto, uno stomaco legnoso che fagocita parabrezza, ruote, tetto, fanalini e giganteschi paraurti laterali. Sul lato di uno sportello deformato uno spicchio rosso con un cerchio bianco e delle righe nere risalta sotto foglioline e arbusti. Un intero albero è cresciuto intorno alla macchina. Le radici partono da un'ammaccatura vicino al fanalino posteriore.
Fiasco se ne sta lì. Fissa i grovigli.
«Il colonnello non ha fatto in tempo a riprendersela, così mi ha sempre raccontato nonno.  - la voce di Caterina, spuntata alle spalle di Cesare senza un rumore, non è mai stata così vuota - Era dovuto scappare in fretta e furia, che arrivavano gli americani. Allora la macchina è rimasta in officina. È una macchina bellissima, quando ero bambina l'ho trovata da sola, nessuno sa che è qui dietro, solo io e il nonno. Poi quando le gambe sono state abbastanza lunghe da toccare i pedali, mi ha insegnato a guidarla, e guidarla di notte la rende ancora più nera, se spegni i fari sei una sola cosa con col buio.» 
L'abito da sposa bianchissimo e il fascio di luce che entra dal lucernaio fanno risaltare in qualche modo i capelli gialli come limoni, come oro, come il Sole, che Caterina ha in testa. Capelli biondi che nessuno degli altri Giannini ha, fratelli che sono tutti mori come fossero stati intinti nello stesso olio dei motori che usano tutto il giorno. Fiasco è immobile, Caterina continua: «Quando tanto tempo fa l'hai colpita con quella mela, come potevo immaginare che un seme si sarebbe fatto strada nel metallo e sarebbe diventato... questo. Forse l'umidità di questo posto, il telone che crea una temperatura perfetta, o chissà quale maledizione, già dopo qualche mese era impossibile districare i rami. O spostarla senza essere visti. Ma a me va benissimo che rimanga qui. Ci deve rimanere per sempre. È pur sempre l'unica eredità di mio padre. E come vedi, anche del tuo.»

Nessun commento:

Posta un commento