venerdì 4 novembre 2011

FFR2011 • TOFU&BROCCOLI • Kokurikozaka kara

Constatando la disgrazia di un programma che più squallido non si può, anche Alabama si reca al FFR, poco e malvolentieri, benedicendo le giornate di sole e maledicendo le inquietanti presenze festivaliere, che tra addetti ai lavori e addetti ai lavori wannabe raggiungono un grado di antipatia che nemmeno a una serata del Billionaire. Per fortuna il film è BELLO, e tanto mi basta. Trattasi del nuovo lungometraggio dell’amatissimo Studio Ghibli (amatissimo da me prima di tutti, dagli anni Novanta, che vi credete!), cioè: 
FROM UP ON POPPY HILL - Dalla collina dei papaveri 
(Kokurikozaka kara コクリコ坂から) 
Trama: tanto Goro mi fu quest’ermo colle.

Evviva evviva Goro! Gridiamo in goro evviva Goro! Ok, basta. Non sono (del tutto) impazzita, parlo di Goro Miyazaki, il cui cognome forse vi dice qualcosa. Il figlio di cotanto padre diresse il suo primo film nel 2006, I Racconti di Terramare, uscito anche in Italia l’anno successivo. Fu un fiasco totale, bocciato da critica e pubblico, un pastrocchio senza capo né coda, talmente brutto che non l’ho nemmeno visto, perché già lo sapevo che era brutto e io se vedo i film brutti muoio (non come qualcun altro COFFCOFF). Si dice che all’epoca padre e figlio litigarono furiosamente a causa del brutto film e non si parlarono più per anni (“e io mi porto via Totoro, tiè!”). Finché un bel giorno fecero pace e Hayao (il padre) decise di adattare per Goro (il figlio) un breve manga del 1980 completamente sconosciuto, intitolato Dalla collina dei papaveri. Il risultato c’è e si vede, non so se per la sceneggiatura del padre o per l’intero staff Ghibli o per chissà cosa (forse Goro è stato legato nello sgabuzzino e ci ha messo solo il nome, per riabilitarlo), sta di fatto che questo Poppy Hill è un gran bel film, migliore del Ghibli precedente (Arrietty) e forse anche meglio di Ponyo (che è diretto dal padre! uhm, ci devo pensare). 
La storia: siamo nel 1963 in un paesino costiero, la giovane Umi (“mare”) manda avanti la pensione di famiglia e frequenta il liceo. Ha una sorellina, Sora (che vuol dire “cielo” e non “sorella” in versione burina, anche se la coincidenza fa troppo ridere) e un fratellino, Riku (“terra” e così gli elementi ci sono tutti). Il padre è morto in guerra e la madre lavora in un’università americana. Lei è la tipica protagonista molto tosta dei film Ghibli, una che si sveglia alle 6, prepara colazione e pranzo per tutti, va a scuola, studia e, qui scatta l’inghippo, decide di aiutare il circolo studentesco “Quartier Latin” per evitare che l’edificio storico in cui sorge venga abbattuto. Guarda caso uno dei capi della rivolta è un bel ragazzetto più grande, Shun, già innamorato di lei. 
Tra assemblee inferocite e distribuzione di opuscoli ciclostilati, sbocciano le gemme delle successive ribellioni sessantottine (o almeno mi piace crederlo) e anche, ovviamente, dell’ammmmore. Non tutto però è quello che sembra e un segreto salta fuori dal passato per compromettere l’unione tra Shun e Umi. Più che l’innamoramento adolescenziale e la trama sottostante (che comunque vira leggermente dai consueti canoni Ghibli), la nota veramente positiva del film è lo sguardo sulla vita studentesca nel dopoguerra giapponese, in cui “ricostruzione” e “rinnovamento” erano le parole all’ordine del giorno. Le autorità scolastiche e buona parte degli studenti vogliono abbattere il grande edificio che ospita i club perché è il simbolo di un passato che non esiste più e che la guerra ha spazzato via. Il comitato di protesta è contrario perché il passato non va demolito ma preservato e onorato. Storicamente parlando, il dopoguerra ha visto il Giappone piegarsi completamente sotto al giogo americano, cancellando intere pagine di storia, annullando la tradizione e ricominciando da zero in un’ottica totalmente occidentale. 
Così è nato il paese ibrido che si conosce oggi, in cui l’impronta straniera ha lasciato un solco indelebile ed è ormai impressa nel dna delle nuove generazioni. Ma all’epoca in cui si svolge il film si combatteva ancora tra cancellazione e preservazione del passato, e lo sguardo è più benevolo verso quest’ultima, tanto che alla fine la perseveranza degli studenti convince tutti, anche l’amministratore generale della scuola, che lavora nella capitale e non conosce la situazione, ma non è immune al fervore studentesco. 
L’atmosfera di fermento ed eccitazione è resa alla perfezione e i protagonisti sono delineati in modo molto “umano”, realistici nella loro maldestra lotta quotidiana, ancorati al mondo vero senza bisogno delle incredibili “miyazakiane” avventure a cui siamo abituati. I club scolastici all’interno del grande edificio sono uno più irresistibile dell’altro, la Sora sorella si innamora dell’amico di Shun, Umi si porta il ciclostile a casa per stampare volantini, la ragazza che lavora nella pensione si sveglia tardi, è un’imbranata e passa le notti a dipingere. 
Quello che ne esce è un quadro perfettamente bilanciato, divertente, a volte amaro ma verosimile, un tuffo nel passato di chiunque sia stato adolescente. 
Curiosity killed the tofu #1 • La protagonista viene spesso chiamata MERU. Non mi spiegavo il perché, dato che si dice chiaramente che il suo nome è UMI. La risposta la da wikipedia giapponese: “meru” sarebbe la (discutibile) pronuncia di mer, cioè mare in francese. 
Curiosity killed the tofu #2 • Umi tutte le mattine issa due bandiere in cortile in ricordo del padre morto in guerra (decisive poi per il suo incontro con Shun). Non viene mai detto ma nell’alfabeto nautico rappresentano le lettere U e W che messe insieme indicano un augurio di navigazione sicura.
Sono occidentalista, perché mai dovrei vedere questo film assurdo? Perché TUTTI almeno una volta abbiamo pensato di cambiare il mondo tra le urla di un’assemblea studentesca.

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