Gli equilibristi
Trama: Lacrime amare, anzi no, amare lacrime
Sarò breve, perché con tutti i guai che capitano tra capo e collo a Valerio Mastandrea in questo film sarebbe veramente crudele mettersi qui ad elencare tutte le cose che proprio non vanno in questo film, film itaGliano che più itaGliano non si può; e fa quasi male accettare il fatto che - nonostante alcuni siano ancora capaci di tirare fuori la Bellezza proprio dall'essere itaGliani e dal fare film strettamente legati all'itaGlianità - altrove, tipo qui, dire "film itaGliano" sia sinonimo di noia, banalità, ridondanza, e, cosa più grave di tutti, "sentirsela calda".
Gli equilibristi ci racconta di Valerio Mastandrea padre, Valerio Mastandrea marito, Valerio Mastandrea impiegato, Valerio Mastandrea però anche cornificatore che, una volta ammessa la sua colpa e rimesso il pirulo nei pantaloni, deve metterlo anche in una valigetta e andarsene di casa: da quel momento, l'inferno. Pasti freddi, residence, barba nei bagni pubblici, turni a scaricare le cassette al mercato per arrotondare, fino alle dormite in macchina, finanche alla Caritas, e arriva presto il momento in cui l'unica soluzione è quel tram che passa e che se ti piglia ti risolve tutti i problemi.
Si, ok, i film itaGliani introspettivi, ok la tragedia, ok i silenzi e gli sguardi pesi, ok la storia di un uomo che tritato dalla burocrazia e schiacciato dal proprio orgoglio non riesce in alcun modo a risalire la china, ma l'andamento da fiction natalizia di Canale 5, no.
Gli equilibristi è scritto male. Ripetitivo, semplicistico, banalizzante e alla ricerca della lacrima facile, ma peggio, mette in bocca ai suoi protagonisti frasi sconnesse e scontate, proprio il 2x1 dei luoghi comuni e, nonostante Mastandrea riesca a sembrare naturale nella sua disfatta, è troppa la distanza tra quello che dice (brutto) e come lo dice (bene, rimane comunque un attore che ha trovato la sua dimensione perfetta, già già); e certo non è aiutato da una Barbora Bobulova (che ha fatto BB? FIno a due anni fa era giovane e immatura... ora più che maturata pare proprio appassita) che è veramente il personaggio peggio costruito: una spietata donna senza cuore. Ma - ci direbbe chi ha scritto il film - il motivo del suo aiuto così tardo (solo negli ultimi tre minuti la famiglia si accorge dell'abisso in cui è caduto il pater familias e cercherà di risolvere il tutto... cercandolo in motorino tra le strade di Roma, che si sa, sono poche le strade di Roma) sta nel fatto che l'uomo non ha palesato i suoi problemi, ma - risponderemmo noi a questa palese arrampicata sugli specchi - non è vero per nulla, è colpa della sceneggiatura sbilenca se questo passaggio rimane ai lati dello schermo.
I film ItaGliani che rovinano gli altri film itaGliani, che insomma, "il ritratto di inferno con famiglia" ha creato i capolavori veri, oggi invece siamo al pietismo spinto. Come dire, quando gli italiani con le lacrime agli occhi assistevano a questa scena:
vivevano in tutt'altra Italia e le lacrime erano di tutt'altra... pasta.
Gli equilibristi, a scapito del suo titolo, è un ruzzolone, un vero inciampo.
vivevano in tutt'altra Italia e le lacrime erano di tutt'altra... pasta.
Gli equilibristi, a scapito del suo titolo, è un ruzzolone, un vero inciampo.
Tutto il contrario di un altro film che ha nuovamente Mastandrea come protagonista:
La mia classe
Trama: Rimandati a settembre
Documentario? Fiction? Mockumentario? Film di interviste proto-pasoliniano? I piani di Gaglianone (già regista di Ruggine) si sono evidentemente andati ad infrangere contro la realtà, quella che ha superato i confini di celluloide filmici e ha invaso con tutta la sua potenza il film.
La mia classe, a volerlo ridurre in pochissime parole, è: professore insegna a classe di immigrati.
Il professore è Mastandrea, gli immigrati sono immigrati, veri, dall'Egitto, dal Brasile, dall'Africa, dall'Iran, tutti attori non professionisti, reali studenti di scuole serali - molto vicino, il progetto, a quel La classe francese che tanto ci piacque, e il 2009 diventa passato remoto, 7e1/2.
E fino a qui il piano iniziale regge: facciamo un film, fiction, usando come bagaglio le esperienze dei protagonisti. Poi arriva la realtà a bussare alla porta della classe, come un Preside incazzato, e cambia tutte le carte in tavola: uno dei ragazzi non può continuare le riprese, gli è scaduto il permesso di soggiorno, anche in sceneggiatura c'era un momento del genere, ma il protagonista era un altro. Incredibile? Forse no, forse vuol dire che la tua sceneggiatura gira bene. Fermare il film? Portarlo avanti? La domanda se la fa Gaglianone e, qui il cambio di passo che all'inizio sembra stridere con il resto, è proprio Gaglianone - regista che appare sullo schermo con tanto di assistenti di produzione, fonici e attrezzisti - la fa al pubblico, sì insomma, Effetto Note (sul registro): gli attori, Mastandrea compreso, iniziano ad entrare ed uscire dai loro personaggi, il regista ci discute sul grande schermo, entra nel suo stesso film, il film diventa a tratti un backstage, ma poi torna sui binari della fiction, in un continuo - forse un po' discontinuo - cambio di piano di coscienza.
E quando, in una scena a cuore aperto, alcuni degli studenti ci raccontano la loro storia personale, nascosta dietro un'espansività contagiosa, o una bellezza silenziosa, o una rabbia a braccia conserte, o una pacatezza sommessa, capiamo che il proposito di Gaglianone è pienamente centrato: non si ricorre mai ad un pietismo del tipo "porello l'immigrato" o a quelle scene da TG con i barconi e i centri di accoglienza iperaffollati, qui abbiamo di fronte i ragazzi, le donne, gli uomini che fanno parte di un tessuto sociale le cui trame gli si stringono addosso; lavoratori, studenti, padri, madri, figli, io, te, ma dentro, al contrario della maggior parte degli "io/te", hanno i ricordi di amici morti sulle loro ginocchia, di viaggi della speranza che noi non possiamo neanche immaginare (quando ci lamentiamo di un autobus in ritardo, per dire), di famiglie lasciate e mai più viste per dieci anni o forse mai più.
Ecco, questa è la cosa più importante, non tanto il livello filmico che non trova molto la sua compattezza (l'idea di farlo diventare una sorta di documentario è venuta in corsa, e si vede, molte le linee che i spezzano, molti i fatti che non hanno la loro giusta continuità), quanto la totale apertura alla realtà stessa, che ha prepotentemente rotto lo schermo delle cineprese e ha deciso per il regista, per gli attori, per gli spettatori, è entrata nel film e con fare serio ha detto: "Io sono qui, e non me ne vado, perché non vorrei che anche uno solo degli spettatori di questo film possa dubitare che ogni parola, sguardo, lacrima, sia finta, scritta su un pezzo di carta, recitata."
Io siccome ho notato che ancora non c'è la locandina - non so se per scaramanzia o perché in effetti meglio non portarsi sfiga da soli scrivendo cose come "Acclamato a Venezia" e poi stampare 5000 locandine e poi tappezzarci la propria stanza - ho deciso di fare due rough velocissimi di come vedrei io la cover (l'avrò copiata a qualcuno? Po' esse...)
Capito? Eh? Non male dai... Che faccio, Le faccio bene poi ve le mando?
Questi due esempi di neo-neorealismo, diventano una cartina tornasole di come andrebbe trattata la Realtà nei film, perlomeno quella italiana in quelli italiani; quello che voleva essere un film neorealista, Gli equilibristi, appare affettato e costruito per la lacrima facile, questo, La mia classe, che come neorealismo insegna fa leva sulle interpretazioni vere di attori non professionisti chiamati a "recitare" sé stessi, diventa un meta-film importante, puro, e, qualità che alle volta conta più della reale riuscita del progetto, sincero.
La mia classe, a volerlo ridurre in pochissime parole, è: professore insegna a classe di immigrati.
Il professore è Mastandrea, gli immigrati sono immigrati, veri, dall'Egitto, dal Brasile, dall'Africa, dall'Iran, tutti attori non professionisti, reali studenti di scuole serali - molto vicino, il progetto, a quel La classe francese che tanto ci piacque, e il 2009 diventa passato remoto, 7e1/2.
E fino a qui il piano iniziale regge: facciamo un film, fiction, usando come bagaglio le esperienze dei protagonisti. Poi arriva la realtà a bussare alla porta della classe, come un Preside incazzato, e cambia tutte le carte in tavola: uno dei ragazzi non può continuare le riprese, gli è scaduto il permesso di soggiorno, anche in sceneggiatura c'era un momento del genere, ma il protagonista era un altro. Incredibile? Forse no, forse vuol dire che la tua sceneggiatura gira bene. Fermare il film? Portarlo avanti? La domanda se la fa Gaglianone e, qui il cambio di passo che all'inizio sembra stridere con il resto, è proprio Gaglianone - regista che appare sullo schermo con tanto di assistenti di produzione, fonici e attrezzisti - la fa al pubblico, sì insomma, Effetto Note (sul registro): gli attori, Mastandrea compreso, iniziano ad entrare ed uscire dai loro personaggi, il regista ci discute sul grande schermo, entra nel suo stesso film, il film diventa a tratti un backstage, ma poi torna sui binari della fiction, in un continuo - forse un po' discontinuo - cambio di piano di coscienza.
E quando, in una scena a cuore aperto, alcuni degli studenti ci raccontano la loro storia personale, nascosta dietro un'espansività contagiosa, o una bellezza silenziosa, o una rabbia a braccia conserte, o una pacatezza sommessa, capiamo che il proposito di Gaglianone è pienamente centrato: non si ricorre mai ad un pietismo del tipo "porello l'immigrato" o a quelle scene da TG con i barconi e i centri di accoglienza iperaffollati, qui abbiamo di fronte i ragazzi, le donne, gli uomini che fanno parte di un tessuto sociale le cui trame gli si stringono addosso; lavoratori, studenti, padri, madri, figli, io, te, ma dentro, al contrario della maggior parte degli "io/te", hanno i ricordi di amici morti sulle loro ginocchia, di viaggi della speranza che noi non possiamo neanche immaginare (quando ci lamentiamo di un autobus in ritardo, per dire), di famiglie lasciate e mai più viste per dieci anni o forse mai più.
Ecco, questa è la cosa più importante, non tanto il livello filmico che non trova molto la sua compattezza (l'idea di farlo diventare una sorta di documentario è venuta in corsa, e si vede, molte le linee che i spezzano, molti i fatti che non hanno la loro giusta continuità), quanto la totale apertura alla realtà stessa, che ha prepotentemente rotto lo schermo delle cineprese e ha deciso per il regista, per gli attori, per gli spettatori, è entrata nel film e con fare serio ha detto: "Io sono qui, e non me ne vado, perché non vorrei che anche uno solo degli spettatori di questo film possa dubitare che ogni parola, sguardo, lacrima, sia finta, scritta su un pezzo di carta, recitata."
Io siccome ho notato che ancora non c'è la locandina - non so se per scaramanzia o perché in effetti meglio non portarsi sfiga da soli scrivendo cose come "Acclamato a Venezia" e poi stampare 5000 locandine e poi tappezzarci la propria stanza - ho deciso di fare due rough velocissimi di come vedrei io la cover (l'avrò copiata a qualcuno? Po' esse...)
Eccole qui, Versione 1
Versione 2
Questi due esempi di neo-neorealismo, diventano una cartina tornasole di come andrebbe trattata la Realtà nei film, perlomeno quella italiana in quelli italiani; quello che voleva essere un film neorealista, Gli equilibristi, appare affettato e costruito per la lacrima facile, questo, La mia classe, che come neorealismo insegna fa leva sulle interpretazioni vere di attori non professionisti chiamati a "recitare" sé stessi, diventa un meta-film importante, puro, e, qualità che alle volta conta più della reale riuscita del progetto, sincero.
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