mercoledì 5 giugno 2013

Grande Trilogia della Bellezza • La dolce vita

La dolce vita
Trama: Marcello!

Portiamo a termine un virtuale viaggio nel niente con quello che è - volente o nolente - IL film sul niente.
Per chi bazzica C&B non è una novità scoprire che Fellini non è "cosa mia"; non amo i suoi pagliacci, le sue maschere, le sue strade, le sue derive oniriche, non ci posso far nulla e non intendo neanche farci nulla, se c'è una cosa che ho imparato vedendo settemilacinquecentomila film è che non puoi proprio farti piacere uno stile che non ti piace, un regista che non ti piace, un film che non ti piace, un'idea che non ti piace. 
Eppure, messo al muro da un laconico «Non PUOI recensire Il grande Gatsby e soprattutto La grande bellezza senza aver visto La dolce vita. Non. Puoi.» ho intrapreso la visione.
La dolce vita non è (solo) un film "felliniano", è piuttosto un film incredibile, che va oltre la sua firma.
Certo, i tempi e i modi sono tanto cambiati, noi spettatori siamo tanto cambiati e non siamo più abituati alla modalità narrativa del cinema di un tempo, quindi ogni visione di questo tipo richiede un impegno (parlo della spinta iniziale e ovviamente parlo per me) più forte rispetto all'approccio che abbiamo per un film contemporaneo; eppure ogni volta che capita di vedere un Grande film del passato, scopri (e ti senti un po' idiota per la semplicità dell'equazione) che tutto, e sempre, viene proprio da lì, dal cinema che fu, e quando hai l'occasione di riprovarlo a te stesso, è una bella lezione, anche di umiltà critica.
Quello che mi preme - lungi da me lanciarmi in una vivisezione di Fellini, che in un atto di puro maniavantismo, ho appena ammesso di essere fortemente ignorante sull'argomento - è soffermarmi su Marcello, Marcello personaggio, non Mastroianni (attore inarrivabile, comunque).
Lo faccio perché dopo Gatsby e Jep Gambardella, quello di Marcello è un altro tassello nella costruzione di un uomo vivo, ma che pare morto, un uomo che sente, ma che non prova, o che almeno decide scientemente che i suoi sentimenti possono essere indirizzati a seconda delle sue volontà, anche se la direzione non è quella giusta, anche se è autodistruttiva e autolesionista, o almeno così viene sentita dal sentire comune. 
Ma una scelta, seppure negativa, non rimane un puro atto di vita?
Il niente di cui Marcello si circonda e si riempie è il più vuoto dei nulla possibile, le sue feste sono meno sfarzose di quelle di Gatsby e non essere lui l'organizzatore (e contemporaneamente l'ospite d'onore) lo spoglia di quei "vestiti nuovi dell'Imperatore" che perlomeno rendevano affascinante Gatsby all'occhio estraneo; le sue feste poi sono più sensuali e "psicodrammatiche" di quelle viste nella Grande Bellezza, sono più cerebrali anche se ugualmente opulenti, per questo, almeno all'inizio, Marcello ne è coinvolto, non ci sono trenini che non portano da nessuna parte, ma chiacchiere chiacchiere e ancora chiacchiere, e la destinazione è la stessa: nessuna parte.
Con l'alibi del giornalismo - anche se l'unica volta che vediamo Marcello tentare di scrivere si interrompe, distratto da un'anelito di semplice innocenza popolare, la biondina che poi chiuderà anche il film - Marcello partecipa alla Dolce Vita: attrici americane vanesie
concerti nei fori imperiali (nella Dolce Vita appare Celentano, nella Grande Bellezza Venditti, nella Dolce Vita starnazzano oche giulive, nella Grande Bellezza migrano fenicotteri rosa), artisti decaduti, prostitute dal cuore d'oro, nobili che non si stupiscono più di nulla. 
Ma lo fa nel peggiore dei modi, da spettatore - dei peggiori poi, di quelli che non riescono neanche a rielaborare l'esperienza con la dovutà dignità  - e non da protagonista attivo. 
E una volta spogliato del suo intento giornalistico, la Dolce Vita per Marcello diventa solo un virus, una dipendenza, una droga nociva che lo porterà all'autodissoluzione.
E poi Roma, così diversa da quella schiusa come un'ostrica da Sorrentino; la Roma della Dolce Vita ci racconta di una Via Veneto che per illuminare le starlette capaci solo di ripetere a pappagallo quello che gli dice il produttore, ruba la luce alle periferie, dove invece si vive l'Amara Vita della povertà. Una Roma dove sui palazzi in costruzione non ci batte il sole e che sono circondati da strade sterrate, anche se poi nascondono appartamenti di design, esattamente l'opposto dei loro inquilini, belli fuori, polverosi dentro.
Marcello è un personaggio dalle mille facce, forse uno dei più densi e sfaccettati che io ricordi: inquieto e fascinoso, un uomo che abbandona la donna che lo ama tanto incondizionatamente da pregare la Madonna per farlo essere proprio come vuole lei, marito perfetto Casa&Chiesa, mentre lui a questa dichiarazione l'accusa di volere per lui una vita da verme, che lui non potrà mai essere quel marito imperfetto che si spenge dentro e come sfogo al massimo una casa chiusa.
Marcello è un uomo che nega l'amore per poi volerselo riprendere dopo un secondo, e dopo ancora un secondo denigrarlo, a ancora un altro secondo dopo impietosirsi, e odiarsi per quella pietà, e via così, di secondo in secondo in un patetico ping-pong di tormenti vomitati vicendevolmente. Un uomo che - in una scena straziante (citata da Sorrentino, di nuovo) - poi spreca dichiarazioni d'amore a nessuno, donandole giusto all'aria, in un gioco di strane architetture acustiche e stanze vuote.
Non è un film facile, La dolce vita, è fatto di tanti spezzoni che paiono slegati tra loro, archi narrativi chiusi che compongono un mosaico delle personalità di Marcello, e del suo disfacimento, ma se un palazzo antico più invecchia e incupisce, più acquista fascino, un uomo più scende a compromessi, più marcisce.
La festa finale, organizzata a forza, rompendo un vetro pur di prendere possesso del salotto di turno, è la deriva finale (non a caso un mostro marino spiaggia proprio a pochi metri da lì) e quando Marcello, ormai maestro di cerimonia, giullare che impiuma e denigra la donna... le donne, che strana, difficile contrastante figura ci fanno in questo film.
Eppure questi (Gatsby, Jep, Marcello) sono tre personaggi che non si riescono ad odiare; il sentimento più diffuso - stando appunto a quanto è emerso da una serie di "interviste" - è la pena: pena per uomini persi, grandi bellezze buttate alle ortiche, dolci vite col sapore amaro in bocca, intelletti persi dietro l'avere più che davanti l'essere. Eppure io non ho provato pena, neanche un secondo di nessuno dei tre film.
Cosa ti aspetti dall'intelletto, la felicità? Impossibile. Il ragionamento ha tatuato su di sé il tormento, l'intelligenza è costruita sulla paranoia, la vita stessa si palesa con tutta la sua potenza nell'inquietudine.
Affascinanti, imperscrutabili, misteriosi eppure disperati, vuoti. Ma essere vuoti è ben diverso dall'essere pieni di niente. Siamo soliti dire: "ho passato una bella giornata, non ho pensato a niente". E sbagliamo, perché anche il niente riempie, e devi saperlo gestire.
La grandezza di Gatsby non sta anche lì? Nell'aver creato un niente perfetto, da quello che aveva, cioè un nulla totale?
La bellezza di Gambardella non sta proprio lì? Nell'essere critico del niente, ma mai con rabbia, vetriolo e sarcasmo quelli sì, ma non negando mai la sua appartenenza e interdipendenza a quel niente. 
La dolcezza di Marcello non sta proprio lì? Nell'essere ormai perso, ma ugualmente allargare le mani vuote di fronte a una possibile normalità, l'ennesima che gli si presenta davanti questa volta dai tratti dolci di una ragazzina bionda e, senza parlare, prima di voltarsi, dire... 
Non esiste Grandezza, Bellezza o Dolcezza. 
Esiste la vita, che è grande, bella e dolce. A volte.

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